“Chissà, chissà domani, su che cosa metteremo le mani. Se si potrà contare ancora le onde del mare e alzare la testa...”. Così inizia “Futura”, una delle più belle canzoni del cantautore bolognese Lucio Dalla. Non penso sia stato un caso intitolare così l’evento di tre giorni a Bologna del Piano Nazionale della Scuola Digitale. Mi sarei aspettata ne diventasse la colonna sonora, sarebbe stato bello coniugare la grande tradizione della musica italiana con un evento così, proiettato verso il futuro.
Di “Futura” nemmeno le note di sottofondo, ma sono stati tre giorni molto intensi e stimolanti, non solo per le attività e le riflessioni proposte, ma anche per quello che ho vissuto nel backstage dell’evento. Accompagno Alessandra Bartocci e Marco Cioci, due studenti del quarto Liceo Scientifico che si sono classificati primi a livello regionale per il progetto YounG7: questo è il loro viaggio premio. Alessandra e Marco hanno trovato a Bologna tanti altri ragazzi meritevoli provenienti da tutta Italia, che sono stati suddivisi in 9 commissioni e hanno discusso e presentato risoluzioni sui temi dell’agenda internazionale 2018. Qui le loro impressioni. Nel frattempo noi docenti potevamo sbizzarrirci tra workshop e stand dove scuole e aziende provenienti da tutta Italia presentavano progetti e prodotti utili a soddisfare la richiesta crescente di una scuola che sia al passo con i tempi, dove la parola d’ordine sembra essere “digitale”.Si è parlato di nuove competenze: capacità creativa, saper parlare in pubblico, lavorare in team; competenze che sono entrate ormai nel nostro linguaggio didattico comune, ma quanto realmente le promuoviamo e soprattutto riusciamo a promuoverle? La dicotomia tra i nostri programmi da portare a termine e le nuove esigenze didattiche, educative, formative (già su questi termini in rapporto alla scuola ci sarebbe molto da dire) è ancora molto forte. Personalmente mi confronto molto con ciò che bisogna fare e poco con delle esperienze concrete che dimostrino che di prendere una certa direzione valga veramente la pena. Mancano esempi concreti, di cui personalmente ho tanto bisogno e spesso incontro anche idee interessanti ma un po’ astratte che poi sperimento personalmente, andando a tentativi; la sperimentazione va bene, ma è spesso legata ad una intuizione di ciò che ho ascoltato e non a delle esperienze concrete che mi sono state offerte.
Ho dovuto imparare qualcosa anche dai mates, uno dei gruppi youtuber che spopola nella rete, e non nego di aver fatto fatica ad accettare la cosa. Eppure uno di loro alla domanda del presentatore “come vedi la scuola del futuro?” ha dato una risposta che mi ha fatto pensare. Questo giovane ragazzo ha parlato di una scuola che i ragazzi frequenteranno due/tre volte a settimana, in cui potranno scegliere il corso del professore che preferiscono, anche oltreoceano, magari esperto nel campo di loro interesse, seguendo corsi on line; gli enti predisposti, certificati, potranno lasciare titoli riconosciuti (io stessa seguo dei webinar promossi da alcune case editrici che rilasciano attestati di partecipazione o formazione circa una specifica competenza didattica). All’estero questo modello si sta già affacciando e considerando come i ragazzi scelgono attraverso la rete percorsi di conoscenza e formazione sempre più personalizzati, è una prospettiva che non faccio fatica ad immaginare. Un futuro dove saranno gli studenti stessi a sceglierci? Non lo vedo impossibile. E poi l’età in cui diplomarsi: si è inevitabilmente parlato del diploma in quattro anni, sull’onda delle note “all’estero ci si diploma e laurea prima…”; spesso a queste affermazioni si controbatte, un po’ a difesa, dicendo che il nostro metodo è superiore, che gli italiani sono le menti più ricercate, etc. È veramente così? Il Ministero ha approvato il progetto per 100 scuole campione per l’a.s. 2018/19 su cui sperimentare il diploma in quattro anni, i cui risultati, rigorosamente monitorati, verranno puntualmente pubblicati. Attendo quindi un report sull’esperienza per poter dare un giudizio.
E poi mi ha decisamente fatto interrogare, con non poche perplessità, l’immagine della slide di due giovani formatori che riportava la proiezione di cosa sapranno fare meglio di noi i robot in un non lontano futuro. Si prevede che nel 2026 sapranno scrivere saggi scolastici meglio di noi, nel 2049 sapranno scrivere un bestseller migliore del nostro, nel 2053 saranno i migliori chirurghi, fino ad arrivare al 2062 in cui, al 50% delle probabilità, saranno migliori in tutti i campi lavorativi. Forse a qualcuno questa prospettiva non interessa... si è parlato addirittura di una prospettiva di vita che raggiungerà i 400 anni. Devo dire che la cosa ha fatto sorridere anche me e io stessa mi sono domandata: ma abbiamo davvero tutta questa esigenza di vivere così a lungo? Le riflessioni e argomentazioni che aprono prospettive simili sono veramente vastissime. Utopia, fantascienza, lontanissimo futuro? La sensazione che ho avuto, però, è che queste ipotesi non mi sembrano né assurde né tanto lontane. Uno scenario che reclama ancor più responsabilità e senso critico.
I lavori hanno prodotto il decalogo device sull’uso dei dispositivi mobili a scuola, disponibile anche il primo Curriculum di educazione civica digitale per le scuole di ogni ordine e grado sul sito http://www.generazioniconnesse.it/ , utile anche per prendere spunti e guidare l’educazione responsabile degli strumenti digitali tra i banchi di scuola.
Potete accedere ad una sintesi dell’evento e alle sue risoluzioni attraverso il comunicato stampa.
Ho parlato all’inizio anche del backstage. Mi ha provocato molto ascoltare i discorsi dei ragazzi al di fuori del contesto classe, scuola, evento… non che non mi fosse già accaduto ma ne sono stata nuovamente colpita. Alcuni di loro parlavano di gruppi whatsapp in cui ci si scambia informazioni sulle nuove ricerche delle case farmaceutiche per capire come investire in campo finanziario; ascoltare un ragazzo di 17 anni parlare della ricerca sull’epatite B con la padronanza di uno studente universitario in medicina, devo dire che mi ha impressionato. Allo stesso modo mi ha aiutato a riflettere un altro ragazzo che parlava della sua passione per Dante, Caravaggio, Gaudí e la fisica, facendomi sentire tutta l’insufficienza di quello che noi professori spesso proponiamo loro a scuola. Tutto quello che sapeva, con un entusiasmo non comune, proveniva dai suoi approfondimenti, tutt'altro che incoraggiato dalle ore scolastiche. Come non lasciarsi provocare, mettere in discussione e direi anche in crisi.
Tornando a Orvieto, pensavo sul treno ad uno slogan: non ci dispiace la scuola digitale… ma anche più umana non sarebbe male!
Perché provocatissima da questi giorni, interamente considerati, mi domandavo se l’aumento delle nostre potenzialità fisiche con bracci meccanici, l’aumento del nostro tempo libero (grazie all’inserimento dei robot nel nostro quotidiano), l’aumento della nostra capacità di essere connessi, etc, aumenterà anche la nostra capacità di capire l’uomo, di intercettare la sua inquietudine più profonda, la capacità di saperla accogliere e ascoltare e di saperla sop-portare, di sentirci ancora infinitamente piccoli di fronte all’infinitamente grande… non sia mai che ci accontentiamo, che diventiamo cyber-saccenti, cyber-autosufficienti. Ha osato affermare Dostoevskij in maniera paradossale: “L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”. La bellezza di quella pizza che ci siamo andati a mangiare insieme una sera, rigustata proprio come una esigenza di rapporti umani e non come riempitivo di un sabato sera qualunque; la bellezza di camminare per le strade di Bologna... in silenzio; la bellezza di poter stare con qualcuno e sentire di poter essere te stesso. “Ciò che occorre è un uomo - ha affermato lo scrittore Carlo Betocchi - non occorre la saggezza, ciò che occorre è un uomo, in spirito e verità, non un paese, non le cose, ciò che occorre è un uomo, un passo sicuro, e tanto salda la mano che porge che tutti possono afferrarla e camminare liberi e salvarsi”. Questa certezza può nascere solo dalla promessa mantenuta di una speranza che non si è arresa; per questo il laicissimo Lucio Dalla canta, e può cantare, a conclusione della sua “Futura”: “Aspettiamo che ritorni la luce, di sentire una voce, aspettiamo senza avere paura, domani”.
Simona Cursale
PS. La canzone la trovate facilmente su YouTube, qui un’intervista che vale la pena leggere